“Denuncio un sistema malato”: l’esperienza in un colloquio di lavoro per barista di una nostra lettrice
“Il colloquio si è tenuto alle 9 di mattina in un bar molto frequentato di una zona elegante della città. Il titolare, un uomo sulla cinquantina, non ha nemmeno iniziato con le classiche domande di rito. Mi ha squadrata e, dopo aver commentato il mio aspetto – “Sei troppo acqua e sapone, qui la gente vuole il sorriso, capisci?” – ha iniziato a elencare le condizioni di lavoro. Mi sarei dovuta presentare ogni giorno alle 6:30, senza sapere l’orario di uscita. I turni? Variabili. I riposi? Non garantiti. Tutto “in regola” con un contratto da 10 ore settimanali, anche se il lavoro sarebbe stato a tempo pieno. Quando ho chiesto spiegazioni, mi ha risposto con tono infastidito: “Qui funziona così. Se non ti sta bene, ne ho altri dieci pronti a iniziare domani”. Ho provato a far notare che, a quelle condizioni, non sarebbe stato nemmeno legale. Lui ha riso: “Parli come un sindacalista. Guarda che non stai venendo qui a fare carriera, è solo un caffè dietro a un bancone”. Un caffè dietro a un bancone, quindi, giustificherebbe lo sfruttamento. Ma il rispetto non ha gerarchie”
“Vi racconto il mio colloquio lavoro per barista: viviamo una cultura del ricatto”
La paga proposta era 400 euro al mese, in contanti, “più le mance se sei brava”. “Nessuna tredicesima, nessun diritto. Alla mia obiezione sul fatto che non fosse nemmeno uno stipendio minimo dignitoso, la risposta è stata gelida: “Qui non sei a scegliere, sei a ringraziare”. Ecco l’idea dominante: che un giovane debba sentirsi grato per qualunque cosa, persino per un lavoro che lo consuma senza offrirgli nulla in cambio”, continua la nostra lettrice.
“Alla fine del colloquio, mentre mi allontanavo, ho incrociato un’altra ragazza seduta in attesa, visibilmente nervosa. Stava per entrare nel mio stesso incubo. E lì ho capito: non era solo un colloquio andato male, era il sintomo di qualcosa di più grande. Un sistema tossico, dove l’arroganza del datore si alimenta della precarietà e del silenzio. Ho deciso di non tacere. Di denunciare, di raccontare. Perché non voglio che la normalità del ricatto si radichi nella nostra generazione come se fosse inevitabile”.
Una denuncia per chi non ha più voce
“Scrivo questo perché credo sia arrivato il momento di dire basta. Basta con gli annunci-truffa, i finti stage, i contratti a 10 ore per lavorarne 50. Basta con chi, dietro la scusa del “così fan tutti”, pretende disponibilità totale in cambio di un’elemosina. Non siamo numeri intercambiabili. Siamo persone che studiano, si formano, cercano opportunità vere. Il lavoro non è un favore che ci viene concesso, è un diritto. E se per farlo rispettare serve denunciare pubblicamente, lo farò tutte le volte che servirà. Questa non è solo la mia esperienza: è la realtà quotidiana di tanti. Non si tratta di pretendere il mondo, ma di riavere dignità. Per me, per la ragazza dopo di me, per tutti quelli che ancora tacciono per paura o necessità. Io ho deciso di parlare”.