Palermo, colloquio di lavoro da commessa: "Cosa mi ha chiesto di fare il capo: sono scappata"

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di una giovane lettrice che ci scrive da Palermo: la sua esperienza nel corso di un colloquio di lavoro da dimenticare

Preferisce restare anonima, per cui useremo per lei un nome di fantasia: Rosa. Rosa è una nostra lettrice, che ci scrive per denunciare la sua esperienza lavorativa. Originaria di Palermo, città in cui ha sostenuto il colloquio di lavoro che ci racconta. "Scrivo per condividere un’esperienza recente che mi ha profondamente colpita e ferita, e che credo meriti di essere raccontata. Sono una ragazza di 24 anni, da poco laureata, con tanta voglia di mettermi in gioco nel mondo del lavoro. Qualche settimana fa ho sostenuto un colloquio per una posizione da assistente alle vendite, in un negozio di abbigliamento a Palermo. L’annuncio era chiaro: cercavano una persona dinamica, con buone capacità comunicative e un interesse per la moda. Mi sono presentata entusiasta, preparata, curata nell’aspetto, convinta che fosse un’occasione concreta per iniziare una carriera in un settore che mi appassiona".

"Durante il colloquio, tuttavia, la situazione ha preso una piega inaspettata", continua Rosa. "Dopo una rapida occhiata al mio curriculum e un paio di domande superficiali, il responsabile ha esordito con una frase che mi ha lasciata interdetta: “Qui servono anche braccia, non solo sorrisi. Ti andrebbe di dare una passata a terra ogni tanto, magari pulire il bagno se necessario?”. Ho pensato di aver capito male. Ho provato a chiarire che mi ero candidata per un ruolo di vendita, ma lui ha insistito: “In questo negozio tutti fanno tutto. Non vogliamo principesse qui”. Mi sono sentita umiliata, e sono scappata".

Palermo

Palermo, un colloquio di lavoro che si è trasformato in un’umiliazione

"Non è stata solo la richiesta in sé a ferirmi, ma il tono con cui è stata formulata, come se il mio rifiuto a fare le pulizie fosse un capriccio da ragazza viziata. Sono uscita da quel colloquio scoraggiata e arrabbiata. In Italia si parla tanto di meritocrazia, di pari opportunità, di valorizzazione dei giovani, ma poi si entra in un negozio e ci si trova a dover difendere il proprio diritto a svolgere il lavoro per cui si è stati convocati. Il problema non è pulire: il problema è che nessuno mi aveva detto che il lavoro da “venditrice” includeva anche mansioni da addetta alle pulizie. E il tono paternalista, quasi sprezzante, con cui mi è stato ricordato che “chi ha bisogno lavora e basta” è stato la ciliegina sulla torta".

"Mi chiedo quante altre ragazze abbiano vissuto o stiano vivendo esperienze simili. Quante accettano per necessità, quante si sentono obbligate a subire perché “così funziona”. Mi chiedo se tutto questo non contribuisca a rafforzare quel sistema malato in cui il datore di lavoro si sente legittimato a chiedere qualunque cosa, contando sul silenzio e sulla precarietà dei giovani", prosegue la nostra lettrice. "Quello che mi è successo non è un caso isolato. Dopo aver raccontato l’accaduto ad alcune amiche, ho scoperto che molte avevano vissuto esperienze simili: contratti non rispettati, mansioni aggiuntive mai menzionate, pressioni psicologiche normalizzate. In Italia, soprattutto nel settore del commercio e della ristorazione, è ancora troppo comune confondere la flessibilità con lo sfruttamento".

"Credo che sia arrivato il momento di denunciare queste situazioni. Di smettere di considerare “normale” accettare qualunque cosa pur di avere un lavoro. Di rifiutare l’idea che il rispetto e la dignità possano essere messi da parte in nome di un contratto. Se un’azienda ha bisogno di personale per le pulizie, lo assuma. Se cerca un’assistente alle vendite, la formi e la valorizzi. Ho scelto di non accettare quel lavoro, e oggi non me ne pento. Ma so che tante, troppe persone non possono permettersi di dire di no. A loro dedico questa lettera".