Quanto costa licenziare un dipendente, per il datore di lavoro? Una nota consulente rivela da cosa dipende e il limite massimo, per il 2025.
Il licenziamento, nel contesto del diritto del lavoro italiano, rappresenta l’interruzione unilaterale del contratto da parte del datore. Le forme previste dall’ordinamento variano a seconda delle motivazioni, comportando procedure e tutele differenti per il lavoratore. Il licenziamento per giusta causa interviene in presenza di comportamenti talmente gravi da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto. Si tratta di un recesso immediato, senza preavviso né indennità, ma il lavoratore conserva il diritto al ricorso giudiziale. Nel caso di giustificato motivo soggettivo, la condotta è sì scorretta, ma meno grave. Pertanto, il licenziamento richiede una motivazione scritta e prevede preavviso e indennità, oltre alla possibilità di contestazione legale.
Il giustificato motivo oggettivo è legato a esigenze aziendali, come riorganizzazioni o crisi produttive. Il datore deve attivare una procedura preventiva presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Anche in questo caso, il lavoratore ha diritto al preavviso, a un’indennità e può rivolgersi al giudice. Il licenziamento collettivo coinvolge almeno cinque dipendenti in un arco di 120 giorni, all’interno di imprese con più di 15 addetti. È previsto un iter sindacale e amministrativo articolato, con comunicazioni obbligatorie a sindacati e istituzioni. I lavoratori licenziati possono accedere agli ammortizzatori sociali. In ogni ipotesi, il lavoratore ha diritto a una comunicazione scritta e motivata, alla tutela del preavviso, alle eventuali indennità e alla possibilità di impugnazione entro 60 giorni. In caso di illegittimità, il giudice può disporre la reintegrazione o un risarcimento. Questi diritti sono fondamentali per l’equilibrio del rapporto lavorativo, garantendo un margine di tutela contro decisioni arbitrarie.
Lavoro: ecco quanto costa licenziare un dipendente e da cosa dipende
In aggiunta, c'è da dire che, come spiega una nota esperta, e consulente del lavoro, la dottoressa Sabrina Grazini, in caso di licenziamento - e, dunque, non in caso di dimissioni - il datore di lavoro è tenuto a pagare un contributo aggiuntivo all'INPS. Questo è il ticket di licenziamento, e il suo importo varia in base all'anzianità aziendale del dipendente. Il ticket di licenziamento è, in particolare, un contributo che il datore di lavoro deve versare all’INPS in caso di cessazione di un contratto a tempo indeterminato. È previsto anche se il lavoratore non fa richiesta della NASpI e si applica quando la cessazione del rapporto potrebbe dare diritto all’indennità di disoccupazione. I casi includono licenziamenti individuali e collettivi, risoluzioni consensuali, recesso in prova o fine apprendistato, nonché dimissioni per giusta causa o legate alla tutela della genitorialità.

Introdotto con la Legge Fornero, il ticket serve a sostenere il sistema di protezione del reddito. L’importo si calcola in base all’anzianità aziendale maturata negli ultimi tre anni e corrisponde al 41% del massimale mensile NASpI. Se il rapporto è durato meno di un anno, il calcolo è mensile. Il pagamento, che deve essere erogato in un’unica soluzione, va effettuato entro il termine del versamento dei contributi del mese successivo alla cessazione. Per il 2025, come spiega l'esperta, l'importo massimo è 1.922,28 euro, per rapporti di lavoro di durata che sia pari oppure superiore a 36 mesi, e cioè 3 anni.
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